Eugenio Ripepi: il nuovo disco è “Roma non si rade”

EUGENIO RIPEPI : il nuovo disco è “Roma non si rade”

Un sottotitolo decisamente accattivante: “Colori a occhi chiusi – Occhio destro”. Eugenio Ripepi nella sua carriera devota a tanti fronti della cultura da portare in scena, raggiunge il traguardo di un nuovo disco preannunciando sin d’ora che sarà il primo di una dilogia, ovvero, a quanto sembra, ci dobbiamo attendere un disco per occhio sinistro. E la metafora è dedicata al modo di stare al mondo e di pensare all’arte e alla forma canzone: in questo primo lavoro della dilogia faremo di conto con l’istinto e l’impulso artistico. Forse, all’occhio sinistro, ci si riferisco pensando ad un approccio più ragionato, matematico per quanto possa servire in ambiti prettamente umani come l’arte. “Roma non si rade” quindi è un disco di intimità d’autore ricche di fuori pista e imprevedibili scelte di arrangiamento come il singolo “Nicole” da un video e da un suono che decisamente non fotografa lo spesso umano che si manifesta dietro ogni angolo di questo nuovo disco dell’artista ligure. E noi scendiamo a fondo, o almeno ci proviamo…

Titolo affascinante. Hai cercato di “umanizzare” la capitale o di esortarci a non “raderci” per essere belli?

Ho cercato di rimetterci in dimensione, perché uno tra quelli che ritengo i massimi problemi della nostra epoca, è quello di pensare che la nostra opinione sia indispensabile, che tutto quello che costituisce il bagaglio culturale del nostro vissuto sia stato assimilato da noi per la prima volta, che non ci siano riferimenti più alti, che il nostro punto di vista debba essere imposto e dibattuto contro qualcuno, che ci si arroghi il diritto di insultare le persone che la pensano diversamente da noi. Passeggiare per Roma all’alba, scansarle le strade sul volto antico, fa percepire una grandezza che è molto al di sopra di noi, e che dovrebbe farci riflettere sulla precarietà della condizione umana, riportarci all’umiltà, l’humus, il solo terreno fertile da cui può nascere ispirazione.

Secondo te quindi dove sta la verità? Dietro o sopra la bellezza di facciata? Perché anche il “curarsi” denota tanto di una persona…

Accanto. Se prendi la bellezza come riferimento, è opportuno guardarla in prospettiva. Se pensi alla bellezza come fenomeno che più di tutti esprime la caducità, è accostabile alla sfera dell’umano. Se pensi invece alla bellezza della natura, è la cosa di più simile all’eterno che tu possa concepire. La verità, intesa come valore oggettivo, forse non sta da nessuna parte. Non è facile cercarla. Eppure è semplice. Il grande poeta e sociologo Danilo Dolci, in un laboratorio che ho avuto la fortuna di frequentare da ragazzo, parlava della differenza tra facilità e semplicità. La facilità è l’immediatezza, è raggiungere il risultato senza alcuno sforzo; la semplicità è il rapporto diretto con la natura, è il terreno comune per cui gli sforzi che concepiamo non vengono percepiti come tali. Io sto otto ore in studio di incisione, e per me è una cosa molto semplice. Non sono per nulla stanco alla fine di una sessione. Molti mi dicono che non è assolutamente facile fare questa cosa. Per me è estremamente semplice. È naturale. È vicino a me.

La tua musica invece sembra non curarsi dell’estetica. Almeno in questo lavoro…

La forma per me è sempre stato un cavallo di Troia abile a far viaggiare contenuti nascosti, gradevole e utile a rimanere impressa. Devo dirti comunque che in questo terzo disco, primo della nuova dilogia, la forma o le forme utilizzate sono varie e affrontare un discorso su una forma complessiva che riguardi l’intero lavoro mi risulta difficile.

Ci sono momenti assai diversi nel disco. Come mai un così repentino cambio di “generi” e di mood dentro la stessa tracklist?

Questo discorso continua il mio precedente in risposta a te. I mutamenti di forma sono voluti e dovuti alla necessità di riassumere, in questa prima parte della dilogia, una summa esperienziale che riguarda varie tappe della mia anima riversate in vari sentimenti musicali. Non ho la pretesa di esprimermi in un genere. Questo aspetto cambierà radicalmente con il secondo disco della dilogia.

E poi c’è una copertina che è ancora diversa… altra storia. Ce la racconti?

L’immagine della copertina è lì per un azzardo: aver avuto l’ardire di chiedere a uno dei più importanti artisti contemporanei, Settimio Benedusi, di poter utilizzare una sua immagine che potesse rispecchiare questo mio lavoro. Settimio ha ascoltato le canzoni del disco, e mi ha detto che avrei potuto utilizzare questa immagine stupenda. Io non avrei mai sperato tanto, chiaramente. Raccontarla? Grossa responsabilità. Una figura centrale appena percettibile e mobile è il centro grafico di nove paesaggi marini, nove sentimenti diversi che vanno a convergere nell’umano. L’umano è un filtro? È la sottile parentesi di una natura che continua a procedere incurante del passo mortale? Un’entità capace di plasmare e trasformare, fino a distruggere, ma che può essere comunque spazzata via dal mare e che rispetto a quella immensità è una dimensione talmente minima da non essere paragonabile neanche allo svolgersi di un’onda? Come ogni poesia, questa splendida immagine è polisemica. Io non posso far altro che continuare a ringraziare Settimio Benedusi per avermi permesso di associare qualcosa di così bello al mio lavoro. È una cosa che resterà per sempre, e questo mi commuove.